APPENNINO CENTRALE

Le “mie” montagne hanno una storia lunghissima alle spalle: quella della antica interazione con l’uomo pastore e agricoltore. Una storia iniziata migliaia e migliaia di anni fa, una storia di deforestazione, di pascoli e transumanza, di agricoltura di sussistenza in luoghi e condizioni difficili, talvolta ai limiti dell’impossibile.

Lentamente, nel corso di secoli e millenni, l’ambiente originario è stato trasformato, mentre si consumava una lotta giornaliera per la sopravvivenza in questo ambiente ruvido.

Il paesaggio che noi oggi ammiriamo tra le bianchissime rupi calcaree, nei profondi valloni, negli sconfinati altopiani, nelle foreste, nei pendii aridi che in tarda primavera si riempiono delle più belle fioriture, sembra l’essenza stessa della natura più intatta, in realtà è il prodotto unico di un rapporto – non certo pacifico, ambivalente, complesso – dell’uomo con queste montagne.

Questa interazione continua incessante tuttora, anche se ha acquisito nuovi connotati: è nata una nuova consapevolezza, ma, allo stesso tempo, la capacità di intervenire, modificare, sfruttare gli spazi delle terre alte ai nostri fini immediati si è fatta più pressante e minacciosa.

Nonostante tute queste premesse, lo spirito selvaggio originario, il Genius loci, è quanto mai vivo e aleggia ancora su questi monti, li pervade fin negli angoli più remoti e, insieme al mistero, ne definisce il carattere. Lo si può percepire sulle vette conquistate a fatica dopo lunghe marce, nelle creste aeree, nelle forre, tra i tronchi vetusti dei boschi più antichi e appartati, nelle luci tenui di albe e crepuscoli, nell’aria che quassù acquista un carattere così speciale.

Ogni volta che mi avvicino a questi luoghi mi abbandono, lascio che questo spirito guidi i miei passi, mi renda più vigile e sensibile ai messaggi sottili che il paesaggio invia a chi ha il cuore e l’umiltà per recepirli.